domenica 5 febbraio 2012

L'ACCABADORA: LA VITA E LA MORTE NELLA SARDEGNA DEGLI ANNI CINQUANTA

"Sei nata tu forse da sola, Maria? Sei uscita con le tue forze dal ventre di tua madre? O sei nata con l'aiuto di qualcuno come tutti i vivi? [...] Altri hanno deciso per te allora, e altri decideranno quando servirà di farlo. Non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri ad ogni angolo di strada. [...] Io sono stata l'ultima madre che alcuni hanno avuto".
Michela Murgia, L'Accabadora, Einaudi 2009

L'ultima madre, "l'Accabadora", colei che finisce, che prende nelle sue mani la responsabilità di far accadere le cose quando "non accadono da sole". E' Bonaria Urrai, la vecchia sarta di Soreni, alta, segaligna, vestita dalla lunga gonna tradizionale e protetta da un ampio scialle di lana nera, donna di poche parole e pensieri precisi, temuta e rispettata da tutta la comunità. 
La storia è piuttosto lineare: un paese rurale della Sardegna negli anni '50, una donna mai sposata e senza figli e un'altra, vedova, che di figlie ne ha anche troppe e la "quarta", Maria, è proprio in più. Maria che ruba ciliegie ed è curiosa del mondo e che nella casa di Bonaria (della quale diventa "fill'e anima") trova spazio e rispetto, impara a cucire e ricamare, può studiare e colmare il suo desiderio di sapere. Ogni tanto Bonaria si assenta, spesso durante la notte, ma ci vorranno molti anni prima che la ragazzina scopra la ragione di quelle assenze. E sarà lei - a sua volta - dopo un percorso di consapevolezza tormentato e doloroso, ad aiutare Tzia Bonaria a lasciare il corpo terreno.


Il libro è uscito ormai da qualche anno ma l'ho letto solo ora: sono rimasta letteralmente incollata alle pagine, curiosa soprattutto che l'autrice ne svelasse piano piano il tema. Michela Murgia ha innanzitutto il merito, in quest'oggi in cui vecchiaia e morte sembrano il tabu' più grande, di restituirci un pezzo recente della storia del nostro Paese in cui c'era ancora una saggezza profonda che sapeva scegliere "mai, o quasi, dubitando, di non essere capace di distinguere tra la pietà e il delitto" quando la vita dell'altro meritava il rispetto di essere aiutata a lasciare andare il corpo, né più né meno come la levatrice, al momento giusto, lo aveva accolto in questa dimensione. Eutanasia? Direi rispetto, semplicemente rispetto...e umiltà, e pietà.
Scrive anche bene la Murgia; talvolta con frasi così precise e scolpite, da sembrare versi. Peccato che il romanzo risenta di una certa discontinuità, con capitoli molto belli a cui seguono altri meno riusciti. In generale tutta la prima parte del libro appare più risolta, mentre il finale è appensantito soprattutto dalle pagine ambientate a Torino, che sembrano quasi un appendice inutile alla storia. Anche il tratteggio delle due protagoniste mi è apparso un pò troppo semplificato e avrei voluto sapere di più dei chiaroscuri dell'anima di Bonaria e Maria. Ma a parte le considerazioni stilistiche, questa storia di donne e di vita (dove fra l'altro viene trattato anche il tema dell'adozione) è comunque uno dei libri più belli che ho incontrato nell'ultimo periodo e lo consiglio caldamente!
Con questo freddo cosa c'è di meglio di divano, plaid, tazzona di tè caldo e un buon libro?
Buona lettura e buona domenica a tutti!









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